Le 4 vite di Hamath: diario di un immigrato

io con immigrato

Mi chiamo Hamath Sow, ho 37 anni e vivo in Italia, ma la notte dormo in Africa.

Stanotte ho sognato di aver raccontato a mio padre di quando vendevo i cd per strada. Meno male che era un sogno:  ancora oggi lui non sa niente di questo pezzo della mia vita ed è una cosa che lo ferirebbe molto, specie ora che è anziano.

In Senegal, ma anche in tutto il resto dell’Africa, si pensa che una volta che hai messo piede in Europa i soldi piovano dal cielo.

Io poi sono partito da Dakar a 25 anni lasciando un lavoro in un’azienda parastatale perché con una laurea in Gestione delle risorse umane credevo che come minimo mi offrissero di fare il capo del personale della Fiat.

Qualcuno mi poteva avvisare che non sarebbe andata proprio in questo modo, che non avrei trovato un’occupazione e che i soldi da spedire a casa non ci sarebbero stati.

Per fortuna ce l’ho fatta, non sono diventato un manager, ma ho una vita dignitosa, onesta e piena di soddisfazioni.

Ora che ho il permesso di soggiorno definitivo riesco ogni tanto a tornare a Dakar, la mia città, ma la gente pensa che atterri con una valigia piena di soldi.

Tutti bussano alla porta per chiedere qualcosa, ma non sanno come sei riuscito a mettere da parte quei pochi soldi che permettono alla tua famiglia di stare meglio.

Certo la vita in Africa è dura, ma lo è anche lasciare la propria terra e i propri affetti.

Quando sono partito ho comprato un visto per un mese e sono stato a Parigi per un po’ senza sapere cosa fare e dove andare. Poi degli amici e un cugino mi hanno invitato a stare con loro a Napoli e così da lì è iniziata la mia vita da clandestino.

Ho scoperto che in Italia non si va via di casa a 18 anni perché hai un lavoro, ho scoperto che non esiste la meritocrazia e ho scoperto che quando ritorno in Senegal la gente del mio paese pensa che il mio affare sia la droga perché vengo dall’Italia.

E’ proprio vero che il peggior nemico tra i popoli è l’ignoranza.

Meno male che c’è la tontine.

Quando sono arrivato a Napoli non avevo un soldo né un lavoro, ma per fortuna esistono i “fratelli”.

La tontine è un sistema che ti permette di avere dei soldi grazie al contributo mensile di ciascun membro che a rotazione ne usufruisce. Il primo mese ho ricevuto il denaro che mi è servito per rialzarmi e per comprare qualcosa da vendere.

Nei mesi successivi sono stato contento di mettere la mia parte perché sai che quando tocca a te quel gruzzolo, che insieme con gli altri hai accumulato, ti permette di fare molte cose.

Lavoravo tutto il giorno per strada e questo mi permetteva di pagare la mia fetta di stanza, il cibo e soprattutto mettere da parte qualcosa da spedire a casa.

Certo i momenti di sconforto sono stati tanti al punto che volevo tornare a casa definitivamente, ma la mia famiglia contava e conta molto su di me. Come potevo tradirli?

Oggi quando sento la mancanza e mi viene il mal d’Africa vado, nei pressi della Stazione Centrale, nella zona chiusa al traffico dove c’è il mercato gestito dagli Africani. Faccio quattro chiacchiere in francese, in wolof (che è un dialetto senegalese) e in napoletano, poi mi fermo a mangiare un kebab e così mi sento non lontano da Dakar.

Diario di un immigrato 1

Fare il mediatore culturale mi assorbe moltissima energia, ma è sin dai primi incontri nella sede di Napoli con l’Associazione 3 Febbraio che cerco di dare una mano a chi vuole mettersi in regola.

Basta che un documento non sia compilato bene o che non sia stata pagata una tassa che la persona non riesca ad avere il permesso di soggiorno, vanificando tutti gli sforzi.

In Africa le famiglie hanno investito tutto nel viaggio perché un visto per partire con l’aereo costa tra i 6000 e i 7000 euro, per cui occorre ripagarli e sostenerli. Il business delle ambasciate è caro e i tempi di attesa sono molto lungni.

Certo si può partire con un barcone, per risparmiare, visto che costa tra i 2000 e i 3000 euro, ma bisogna prima arrivare in Libia o in Marocco e sperare che il viaggio vada bene.

Essere rispediti a casa è una vera sconfitta perché quei soldi non si recupereranno mai più.

Hamza Saadou ha 31 anni ed è ancora scosso per il viaggio. E’ partito dal Mali per imbarcarsi in Libia dove dopo due giorni è riuscito ad arrivare a Lampedusa. Un’altra nave lo ha condotto a Manduria (in provincia di Taranto) e con autobus, alla fine, è giunto a Napoli.

Da mesi viene allo sportello e continua a ripetere che non c’è lavoro e che nei campi, per la raccolta dei prodotti, le condizioni sono disumane.

Ho contattato l’Associazione giovani immigrati di Napoli sperando che anche qualcun altro gli dia una mano, almeno per mangiare.

Hamza scuote la testa troppe volte per i miei gusti e questa cosa mi fa paura perché quando non vedi via d’uscita si rischia di fare scelte sbagliate. E’ disperato perché non riesce a migliorare le sue condizioni di vita e nei suoi occhi vedo solo un leone in gabbia.

Per fortuna la sera c’è il ristorante. Ci lavoro dal 2009 ed è il momento della giornata che preferisco perché mi diverto.

Faccio di tutto: dal lavapiatti al cameriere all’aiuto chef.

Mi piace perché è il momento per staccare la spina, per scaricare le tensioni accumulate durante tutto il giorno.

Servono anche gli allenamenti, dopo i quali ritrovo anche parte della squadra di calcio che insieme col mio amico Antonio Gargiulo abbiamo creato qualche anno fa.

Si chiama Afro-Napoli ed è nata per sopperire alle defezioni dell’ultimo momento degli amici napoletani di Antonio per la consueta partita del giovedì sera.

Io mi occupavo di reclutare stranieri di ogni nazionalità per poter scendere in campo ogni volta in 11.

Col tempo la squadra è cresciuta, si è migliorata ed è passata ad essere un impegno semi-professionale per molti ragazzi che hanno trovato così un piccolo sbocco.

A parte l’età non posso dedicare così tanto tempo a questa attività perché il lavoro è più sicuro e bisogna sempre dimostrare impegno.

Negli anni ho conquistato la piena fiducia dei titolari del ristorante e questo significa molto per me.

Ho proposto anche qualche piatto africano, ma su questo non siamo ancora in accordo.

Una cosa però su cui siamo in sintonia è il rispetto delle diversità. A parole mi sembra una bella cosa, ma sui luoghi di lavoro è molto più difficile. Ho raccontato che in Africa per far star buoni i bambini si dice di comportarsi bene, pena l’avvento dell’uomo bianco.

Lo chef ancora non ci crede che un bianco possa far paura come uno nero.

In effetti sono punti di vista e la cosa più bella che mi dice sempre è: “Hamath, meno male che ti ho incontrato”.