Mia nonna non usciva mai dalla campagna dove abitava eccetto due volte: la domenica per andare a messa e il sabato per comprare gli ingredienti della genovese che piaceva tanto al nonno. Nè l’una né l’altra si potevano demandare. Per nessuna ragione al mondo mia nonna avrebbe mandato qualcuno al posto suo a comprare la carne di lacierto o quelle tracchie di maiale che aggiungeva come suo tocco personale perché diceva che erano gente di campagna che conoscevano più la puzza del maiale che quella delle mucche. Non si lasciò convincere di non andare a messa neanche quando fu operata all’anca e la tv la trasmetteva la domenica mattina allo stesso orario in cui ci andava lei. Diceva che non aveva lo stesso effetto, che la benedizione finale non arrivava e non avrebbe potuto neanche prendere la comunione. Sta di fatto che mio nonno dovette portarla in quel periodo in chiesa con la sedia a rotelle e ogni volta che tornava si sentivano le sue bestemmie da lontano, non tanto per la fatica, ma per il fatto che non si capacitava di come non potesse seguire la messa in tv. Ricordo che la nonna, una di quelle domeniche che eravamo andati a pranzo lì, mi disse riferendosi alla questione con il nonno: «Secondo te è meglio vedere in tv come si cucina la genovese o vedere dal vivo come la preparo io e quali sono i suoi profumi? Quello non capisce niente». Io non capivo cosa volesse dire, ma quel profumo è ancora impresso nelle mie narici ed è per questo che so riconoscere quando la genovese è buona. La nonna usava solo le cipolle ramate di Montoro, le apriva a metà, le bagnava e le tagliava come una mezza luna, diceva che così si piangeva di meno. Io lacrimavo lo stesso, come un neonato. Una volta per non farmi piangere la nonna mi mise degli occhialini della piscina. Funzionò? Direi a metà perché ancora oggi quando vedo che bagnarle non produce l’effetto sperato ne indosso un paio, ma lo stesso mi viene da piangere anche se non so se per i bei tempi andati oppure per quel fatto di zolfo, enzimi che si attivano e altra roba da scienziati. Prima delle cipolle però andavamo nell’orto a raccogliere le carote e il sedano per farne un trito. Voi lo sapete che le carote non nascono direttamente nella vaschetta al supermercato? Stanno a testa in giù, nel terreno, ed esce solo un ciuffo di erba che serve per tirarle via. La natura pensa sempre a tutto. «Ciccio devi capire che la genovese è come la messa, ci stanno i momenti per ogni cosa» mi spiegava la nonna che mi chiamava in quel modo perché io porto il nome del nonno e quello è sempre stato il soprannome con cui lo appellavano i contadini della zona perché Francesco gli sembrava troppo altolocato e complicato da dire. Prima di tutto olio extravergine d’oliva che copre carote e sedano, dopodiché la prima fase è sturdiare la carne. La nonna usava sempre questo termine che io confondevo con studiare per cui pensavo che occorresse guardarla, osservarla, capirla, insomma studiarla. Invece quello è un termine napoletano che significa che la carne deve avere una cottura iniziale tale che i pori si debbano chiudere per non lasciare che essa rilasci tutti gli umori e i liquidi rendendola alla fine poco morbida e secca. Un’altra cosa bella era la fase del vino perché la nonna mi mandava in cantina a prendere una delle bottiglie che faceva il nonno. Diceva che pure a messa si mette il vino per cui non poteva non esserci nella genovese, ma lei preferiva il rosso. Quello del nonno aveva un colore scurissimo, era quasi nero. Occorreva metterne un bicchiere, ma un po’ alla volta e così quelle gocce che si radunavano intorno al bicchiere lasciavano sul banco da lavoro una macchia che sembrava una stimmate. Finalmente arrivava il momento delle cipolle, una montagna di cipolle che ricoprivano la carne e l’intero pentolone di terracotta. Il più era fatto, occorreva solo stare attento a non far attaccare il sugo alla pentola, ma per questa operazione ero esentato perché nel frattempo spezzavo queste candele di pasta lunghe mezzo metro ciascuna. Appena mi vedeva arrossire per lo sforzo il nonno mi diceva: «Statt’ accort’ che ti fai sotto» che era un modo carino per evitare che non controllassi la pipì o altro dallo sforzo. Poi aggiungeva come una preghiera dei fedeli una richiesta: «Mi raccomando, la pasta al dente, che a me molla mi fa schifo». Forse è per questo che anche io mangio la pasta al dente, è una cosa che non sopporto quando in bocca sembra una sfoglia molle. Dopo cinque o sei ore di cottura quel profumo ti resta appiccicato addosso per giorni, anche se hai fatto la doccia. E’ dentro di te anche prima di aver mangiato la genovese per cui ha un effetto che dura nel tempo, che non ti lascia da solo proprio come l’ostia consacrata. La nostra funzione finiva quando da dietro a quel piatto fumante con le cipolle ormai sciolte sulla carne sfilacciata condita con del parmigiano reggiano appariva il nonno che diceva: «Manco Dio mangia accussì». Era la benedizione finale, la frase d’amore più bella che rivolgeva alla nonna, è l’eredità che mi hanno lasciato. RICETTA PER 8 PERSONE Una Carota Un gambo di Sedano Olio EVO 2 kg di carne (1,5 kg manzo-lacierto+ tracchie di maiale) 3 kg di cipolle ramate 3 pomodorini del piennolo Pepe sale Foglia di alloro Bicchiere di vino rosso Formato pasta: candele preferibilmente di Pastificio Gerardo di Nola
L'articolo La genovese napoletana è come la messa proviene da Mo te Lo Spiego a Papà.
]]>Mia nonna non usciva mai dalla campagna dove abitava eccetto due volte: la domenica per andare a messa e il sabato per comprare gli ingredienti della genovese che piaceva tanto al nonno.
Nè l’una né l’altra si potevano demandare. Per nessuna ragione al mondo mia nonna avrebbe mandato qualcuno al posto suo a comprare la carne di lacierto o quelle tracchie di maiale che aggiungeva come suo tocco personale perché diceva che erano gente di campagna che conoscevano più la puzza del maiale che quella delle mucche.
Non si lasciò convincere di non andare a messa neanche quando fu operata all’anca e la tv la trasmetteva la domenica mattina allo stesso orario in cui ci andava lei. Diceva che non aveva lo stesso effetto, che la benedizione finale non arrivava e non avrebbe potuto neanche prendere la comunione. Sta di fatto che mio nonno dovette portarla in quel periodo in chiesa con la sedia a rotelle e ogni volta che tornava si sentivano le sue bestemmie da lontano, non tanto per la fatica, ma per il fatto che non si capacitava di come non potesse seguire la messa in tv.
Ricordo che la nonna, una di quelle domeniche che eravamo andati a pranzo lì, mi disse riferendosi alla questione con il nonno: «Secondo te è meglio vedere in tv come si cucina la genovese o vedere dal vivo come la preparo io e quali sono i suoi profumi? Quello non capisce niente».
Io non capivo cosa volesse dire, ma quel profumo è ancora impresso nelle mie narici ed è per questo che so riconoscere quando la genovese è buona.
La nonna usava solo le cipolle ramate di Montoro, le apriva a metà, le bagnava e le tagliava come una mezza luna, diceva che così si piangeva di meno.
Io lacrimavo lo stesso, come un neonato. Una volta per non farmi piangere la nonna mi mise degli occhialini della piscina. Funzionò? Direi a metà perché ancora oggi quando vedo che bagnarle non produce l’effetto sperato ne indosso un paio, ma lo stesso mi viene da piangere anche se non so se per i bei tempi andati oppure per quel fatto di zolfo, enzimi che si attivano e altra roba da scienziati.
Prima delle cipolle però andavamo nell’orto a raccogliere le carote e il sedano per farne un trito. Voi lo sapete che le carote non nascono direttamente nella vaschetta al supermercato? Stanno a testa in giù, nel terreno, ed esce solo un ciuffo di erba che serve per tirarle via. La natura pensa sempre a tutto.
«Ciccio devi capire che la genovese è come la messa, ci stanno i momenti per ogni cosa» mi spiegava la nonna che mi chiamava in quel modo perché io porto il nome del nonno e quello è sempre stato il soprannome con cui lo appellavano i contadini della zona perché Francesco gli sembrava troppo altolocato e complicato da dire.
Prima di tutto olio extravergine d’oliva che copre carote e sedano, dopodiché la prima fase è sturdiare la carne. La nonna usava sempre questo termine che io confondevo con studiare per cui pensavo che occorresse guardarla, osservarla, capirla, insomma studiarla. Invece quello è un termine napoletano che significa che la carne deve avere una cottura iniziale tale che i pori si debbano chiudere per non lasciare che essa rilasci tutti gli umori e i liquidi rendendola alla fine poco morbida e secca.
Un’altra cosa bella era la fase del vino perché la nonna mi mandava in cantina a prendere una delle bottiglie che faceva il nonno. Diceva che pure a messa si mette il vino per cui non poteva non esserci nella genovese, ma lei preferiva il rosso. Quello del nonno aveva un colore scurissimo, era quasi nero. Occorreva metterne un bicchiere, ma un po’ alla volta e così quelle gocce che si radunavano intorno al bicchiere lasciavano sul banco da lavoro una macchia che sembrava una stimmate.
Finalmente arrivava il momento delle cipolle, una montagna di cipolle che ricoprivano la carne e l’intero pentolone di terracotta. Il più era fatto, occorreva solo stare attento a non far attaccare il sugo alla pentola, ma per questa operazione ero esentato perché nel frattempo spezzavo queste candele di pasta lunghe mezzo metro ciascuna.
Appena mi vedeva arrossire per lo sforzo il nonno mi diceva: «Statt’ accort’ che ti fai sotto» che era un modo carino per evitare che non controllassi la pipì o altro dallo sforzo. Poi aggiungeva come una preghiera dei fedeli una richiesta: «Mi raccomando, la pasta al dente, che a me molla mi fa schifo».
Forse è per questo che anche io mangio la pasta al dente, è una cosa che non sopporto quando in bocca sembra una sfoglia molle.
Dopo cinque o sei ore di cottura quel profumo ti resta appiccicato addosso per giorni, anche se hai fatto la doccia. E’ dentro di te anche prima di aver mangiato la genovese per cui ha un effetto che dura nel tempo, che non ti lascia da solo proprio come l’ostia consacrata.
La nostra funzione finiva quando da dietro a quel piatto fumante con le cipolle ormai sciolte sulla carne sfilacciata condita con del parmigiano reggiano appariva il nonno che diceva: «Manco Dio mangia accussì».
Era la benedizione finale, la frase d’amore più bella che rivolgeva alla nonna, è l’eredità che mi hanno lasciato.
RICETTA PER 8 PERSONE
Una Carota
Un gambo di Sedano
Olio EVO
2 kg di carne (1,5 kg manzo-lacierto+ tracchie di maiale)
3 kg di cipolle ramate
3 pomodorini del piennolo
Pepe
sale
Foglia di alloro
Bicchiere di vino rosso
Formato pasta: candele preferibilmente di Pastificio Gerardo di Nola
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]]>Era da molto tempo che non andavo in un parco giochi, ma qualche giorno fa ne ho attraversato uno per caso. Mentre camminavo mi sono girato di scatto perché avevo sentito dei bambini gridare in modo strano, sembravano più urla di disperazione, ma per fortuna era solo un modo bizzarro di giocare. Distratto da quanto era successo sono andato a sbattere sui pali di un’altalena. Il bambino che c’era sopra mi ha guardato stranito, ma poi si è messo a ridere. In effetti andare a sbattere mentre si cammina è una cosa davvero divertente. E così ho iniziato anche io a ridere di gusto. A quel punto non sapendo cosa fare per togliermi dall’imbarazzo ho chiesto di fare un giro sull’altalena. Quel bambino, vedendomi ancora con la mano sulla fronte per il dolore, non ha esitato un attimo nel cedermi il posto. Prima di salire mi sono accertato che reggesse il mio peso e che l’altalena fosse solida. Aveva dei pali di legno ben saldi e delle corde che avrebbero sostenuto un elefante. Sono bastati pochi secondi per farmi passare il dolore e anche tutti i pensieri che avevo. L’altalena ha un potere magico perché quel movimento ti scrolla dalla mente i pensieri negativi. E’una specie di massaggio fatto con mani sapienti che ti prendono la testa e te la muovono dolcemente. L’altalena è una macchina del tempo perché ti riporta a quand’eri bambino facendoti sentire per qualche secondo senza problemi, senza preoccupazioni. Ed è per questo motivo che quasi non sarei voluto scendere più. Il bambino a cui avevo preso il posto non a caso dopo un po’ mi ha detto: “Signore sei sicuro che non ti fa male la testa?” Ho capito che era il momento di tornare con i piedi per terra e di lasciare spazio a chi ha tutto il diritto di starsene lì per tutto il tempo, con le gambe all’aria gridando di gioia. Nei giorni successivi sono ripassato un’altra volta in quel parco, quello con i giochi Wickey, ma non ho avuto il coraggio di chiedere a nessun bambino di lasciarmi fare un giro. Le altalene sono sempre le più richieste ed io non potevo certo far finta di andare a sbattere per intenerire qualcuno che mi avrebbe ceduto il posto. L’unica cosa che posso fare è comprarne una il prima possibile così da poter viaggiare nel tempo ogni volta che voglio. Ve lo consiglio vivamente, ma se proprio non avete dove metterne una, allora più spesso fate un giro in un parco giochi all’aperto, riconcilia col mondo. Post sponsorizzato da Wickey
L'articolo L’altalena e il suo potere magico proviene da Mo te Lo Spiego a Papà.
]]>Era da molto tempo che non andavo in un parco giochi, ma qualche giorno fa ne ho attraversato uno per caso.
Mentre camminavo mi sono girato di scatto perché avevo sentito dei bambini gridare in modo strano, sembravano più urla di disperazione, ma per fortuna era solo un modo bizzarro di giocare.
Distratto da quanto era successo sono andato a sbattere sui pali di un’altalena. Il bambino che c’era sopra mi ha guardato stranito, ma poi si è messo a ridere. In effetti andare a sbattere mentre si cammina è una cosa davvero divertente. E così ho iniziato anche io a ridere di gusto.
A quel punto non sapendo cosa fare per togliermi dall’imbarazzo ho chiesto di fare un giro sull’altalena. Quel bambino, vedendomi ancora con la mano sulla fronte per il dolore, non ha esitato un attimo nel cedermi il posto.
Prima di salire mi sono accertato che reggesse il mio peso e che l’altalena fosse solida. Aveva dei pali di legno ben saldi e delle corde che avrebbero sostenuto un elefante. Sono bastati pochi secondi per farmi passare il dolore e anche tutti i pensieri che avevo.
L’altalena ha un potere magico perché quel movimento ti scrolla dalla mente i pensieri negativi. E’una specie di massaggio fatto con mani sapienti che ti prendono la testa e te la muovono dolcemente.
L’altalena è una macchina del tempo perché ti riporta a quand’eri bambino facendoti sentire per qualche secondo senza problemi, senza preoccupazioni. Ed è per questo motivo che quasi non sarei voluto scendere più. Il bambino a cui avevo preso il posto non a caso dopo un po’ mi ha detto: “Signore sei sicuro che non ti fa male la testa?”
Ho capito che era il momento di tornare con i piedi per terra e di lasciare spazio a chi ha tutto il diritto di starsene lì per tutto il tempo, con le gambe all’aria gridando di gioia.
Nei giorni successivi sono ripassato un’altra volta in quel parco, quello con i giochi Wickey, ma non ho avuto il coraggio di chiedere a nessun bambino di lasciarmi fare un giro.
Le altalene sono sempre le più richieste ed io non potevo certo far finta di andare a sbattere per intenerire qualcuno che mi avrebbe ceduto il posto. L’unica cosa che posso fare è comprarne una il prima possibile così da poter viaggiare nel tempo ogni volta che voglio. Ve lo consiglio vivamente, ma se proprio non avete dove metterne una, allora più spesso fate un giro in un parco giochi all’aperto, riconcilia col mondo.
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]]>E’ da più di venti anni che lavoro con i ragazzi e le famiglie. Ho incontrato vite rabbiose, abbandonate, deprivate che hanno cercato, a loro modo, di farsi strada. Ho imparato a leggere le bugie, certi tipi di gestualità, alcuni modi di dire e atteggiamenti che mi hanno fatto sempre intravedere in chi avevo di fronte una voglia di combattere, di riscatto o semplicemente una richiesta di aiuto (che è la cosa più difficile da fare). Un giorno la mamma di un ragazzino mi disse: “Non deve diventare come noi, lui la galera non se la deve fare perché è una vita di merda. Se devi picchiarlo fallo pure perché sarà per il suo bene. E devi sapere che quando torna a casa gli diamo pure il resto”. Una mamma che ti affida con queste parole il proprio figlio compie da un lato un gesto di grande amore verso di lui poiché sa di non essere sempre all’altezza, dall’altro dimostra verso di te una immensa fiducia e riconoscenza per quello che fai. Tutto questo ti spinge a credere che in un modo o in un altro riusciranno a sopravvivere, a farcela, a stare meglio. In questi ultimi tre anni, però, lavorando quotidianamente con i ragazzi quello che incontro è quasi sempre il vuoto assoluto. E’ una cosa che mi dispera perché esco da casa e sembra di dovermi tuffare in un buco nero. Ho la stessa sensazione che avevo quando per un periodo ho lavorato con ragazzi vittima di abusi. In quel caso però lo giustifichi perché quando ad abusare fisicamente di te è un tuo familiare o se non addirittura tuo padre allora non puoi che isolarti per non sentire il dolore. Non si tratta di riempire un vuoto perché c’è il rischio di non colmarlo mai, ma di capire come chiudere questo buco che ingoia, come un mostro, questi ragazzi e le loro famiglie senza che se ne accorgano. A scuola le proviamo tutte, ma veramente tutte sia dal punto di vista didattico e metodologico che organizzativo, per non parlare della relazione significativa che proviamo a creare con i ragazzi, del livello di accoglienza che si mette in atto a partire dalla dirigente e delle risorse esterne che vengono coinvolte e di quelle economiche che vengono spese. Nonostante questo il vuoto è più forte. La mattina mi trovo di fronte a vite abusate che sono incapaci di difendersi. Da cosa? Da uno smartphone che li fagocita in una vita parallela passiva che gli spegne il cervello. Il tentativo di insegnare ad usarlo in modo corretto e utile è vano perché il vuoto che crea tutto il resto è più bello, anestetizza e non ti fa sentire nulla, nessun dispiacere. I segni di questo vuoto sono occhi rossi, insonnia, incapacità a concentrarsi, smania, perdita di aderenza dalla realtà, convinzione di sapere tutto poiché tutto è a portata di click. I segni di questo vuoto sono genitori, neanche troppo grandi di età, che hanno riposto nello smartphone tutte le speranze, i desideri e i bisogni perché può essere un baby sitter, un compagno di giochi, un possibile datore di lavoro, una vetrina, un insegnante. I segni di questo vuoto sono un’arroganza senza pari dove difficilmente trovi un genitore che ti dice che se il figlio sbaglia quando torna a casa ha pure il resto. L’unica cosa che sento di fare è di gridargli che è tutta una menzogna, come quando ad un bambino abusato devi spiegargli e dimostragli che l’amore di un adulto non è quello che gli ha fatto credere il suo carnefice.
L'articolo Il vuoto di uno smartphone tra i banchi di scuola proviene da Mo te Lo Spiego a Papà.
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]]>“Papà se non ci sono gli ospedali come si curano le persone?” “Guarda che da noi ci sono”. “Sì lo so, ma dove ci sono le guerre o dove non c’è la corrente o dove succede una catastrofe non ci sono”. “Beh sì, in quel caso occorre qualcosa di speciale come i Medici senza Frontiere”. “Chi sono?” “Un’organizzazione di medici che interviene lì dove ci sono le guerre per curare i feriti senza schierarsi con nessuna delle parti in conflitto. Sono dottori che arrivano in quei paesi dove ci sono le epidemie o catastrofi oppure che assistono popolazioni in fuga”. “Papà li dobbiamo aiutare”. “In effetti potremmo approfittare per fare dei regali solidali di Natale“. “Ma no papà mica possiamo fargli un regalo? Non serve a niente”. “Non hai capito, ora ti spiego a papà. Solidale significa che la tua azione è di sostegno alla loro causa che così diventa anche la tua”. “Allora facciamo una cosa solidale”. “Sul loro sito ad esempio possiamo scegliere abbigliamento solidale come la t-shirt verde con il mondo. Quei soldi sono una donazione che verrà usata per comprare materiale sanitario utile per tutti i medici”. “Papà mi sembra una buona idea. Allora prendiamone una per me, una per mamma, una per il nonno e una per la nonna”. “Caspita, grande spesa”. “Hai detto che è un regalo. E poi ora viene Natale”. “Hai ragione a papà, solidarietà fa rima con Chi non si mette nei panni degli altri non è degno di ricevere un regalo neanche a Natale”. “Papà, ma non fa rima”. “Lo so, ma spero arrivi dritto al cuore”. Questo articolo sostiene Medici Senza Frontiere. Scegli una t-shirt solidale e regala alle persone che vuoi bene.
L'articolo Il mondo di Medici senza frontiere in una t-shirt solidale proviene da Mo te Lo Spiego a Papà.
]]>“Papà se non ci sono gli ospedali come si curano le persone?”
“Guarda che da noi ci sono”.
“Sì lo so, ma dove ci sono le guerre o dove non c’è la corrente o dove succede una catastrofe non ci sono”.
“Beh sì, in quel caso occorre qualcosa di speciale come i Medici senza Frontiere”.
“Chi sono?”
“Un’organizzazione di medici che interviene lì dove ci sono le guerre per curare i feriti senza schierarsi con nessuna delle parti in conflitto. Sono dottori che arrivano in quei paesi dove ci sono le epidemie o catastrofi oppure che assistono popolazioni in fuga”.
“Papà li dobbiamo aiutare”.
“In effetti potremmo approfittare per fare dei regali solidali di Natale“.
“Ma no papà mica possiamo fargli un regalo? Non serve a niente”.
“Non hai capito, ora ti spiego a papà. Solidale significa che la tua azione è di sostegno alla loro causa che così diventa anche la tua”.
“Allora facciamo una cosa solidale”.
“Sul loro sito ad esempio possiamo scegliere abbigliamento solidale come la t-shirt verde con il mondo. Quei soldi sono una donazione che verrà usata per comprare materiale sanitario utile per tutti i medici”.
“Papà mi sembra una buona idea. Allora prendiamone una per me, una per mamma, una per il nonno e una per la nonna”.
“Caspita, grande spesa”.
“Hai detto che è un regalo. E poi ora viene Natale”.
“Hai ragione a papà, solidarietà fa rima con Chi non si mette nei panni degli altri non è degno di ricevere un regalo neanche a Natale”.
“Papà, ma non fa rima”.
“Lo so, ma spero arrivi dritto al cuore”.
Questo articolo sostiene Medici Senza Frontiere.
Scegli una t-shirt solidale e regala alle persone che vuoi bene.
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]]>CHIEDI A PAPA’- RASSEGNA STAMPA
L'articolo CHIEDI A PAPA’ – RASSEGNA STAMPA proviene da Mo te Lo Spiego a Papà.
]]>CHIEDI A PAPA’- RASSEGNA STAMPA
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]]>CHIEDI A PAPA’ – SPOT
L'articolo Chiedi a papà – SPOT proviene da Mo te Lo Spiego a Papà.
]]>CHIEDI A PAPA’ – SPOT
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]]>“Figlio che fai al computer, stai leggendo qualcosa di interessante?” “Papà sto cercando delle scarpe da comprare”. “Ah, davvero istruttivo. E le hai trovate?” “Sì, ma sono da femmina”. “Hanno il tacco 12?” “Ma no, sono le Air Force”. “Cosa è un aereo americano?” “Papà sei un vecchio. Sono delle scarpe da ginnastica per farti capire”. “Vabbè, qual è il problema insomma?” “Mi piace questo modello, ma sono da femmina”. “Beh direi che puoi indossarle anche se sono da femmina se ti piacciano i colori e il modello”. “Bene allora le prendo”. Ecco quello che è successo qualche settimana fa con mio figlio. Aveva trovato finalmente delle scarpe che gli piacevano su uno store on line, ma era rimasto disorientato quando aveva visto la categoria donna. Per fortuna però non si è fatto influenzare più di tanto e così alla fine, spinto dal desiderio di avere proprio quelle, le ha prese senza problemi. Lo stesso capita anche con alcuni pigiami. Non preferendo quelli con i tre bottoncini spesso compriamo per lui modelli femminili che hanno un girocollo abbondante e sono senza quei fastidiosi bottoni. Lui è contentissimo e non gliene frega nulla della foto della modella sulla confezione. Sono contento che i miei figli riescano ad andare al di là delle etichette o di certi stereotipi. Evidentemente siamo riusciti, sin da quando sono piccoli, a fargli capire che ci sono delle cose o dei giochi o dei colori che non identificano. In casa nostra ad esempio i miei figli hanno sempre giocato con la cucina. Gliene comprammo una con tanto di forno, pentole e fuochi per preparare pranzi deliziosi. Qualche amico i primi tempi storceva il naso perché un maschietto davanti ai fornelli con tanto di grembiule non gli sembrava un gioco adatto. Beh noi abbiamo fatto anche di più, per qualche tempo avevamo anche un piccolo carrello della spesa con tanto di lista delle cose da comprare (anche perché sempre maschi sono e quindi, conoscendo la specie, a memoria non avrebbero ricordato nulla). E’ per questo che sono stato contento di parlarne durante la mia intervista a Idealo che mi chiedeva cosa ne pensassi dei prodotti unisex per bambini e ragazzi. In effetti ci sono dei giochi, degli abiti, dei prodotti che sono unisex. Allora perché doverli rinchiudere necessariamente in un genere? E poi a conti fatti ci sono il doppio dei potenziali clienti o no?
L'articolo Prodotti unisex per bambini e ragazzi per scegliere in libertà proviene da Mo te Lo Spiego a Papà.
]]>“Figlio che fai al computer, stai leggendo qualcosa di interessante?”
“Papà sto cercando delle scarpe da comprare”.
“Ah, davvero istruttivo. E le hai trovate?”
“Sì, ma sono da femmina”.
“Hanno il tacco 12?”
“Ma no, sono le Air Force”.
“Cosa è un aereo americano?”
“Papà sei un vecchio. Sono delle scarpe da ginnastica per farti capire”.
“Vabbè, qual è il problema insomma?”
“Mi piace questo modello, ma sono da femmina”.
“Beh direi che puoi indossarle anche se sono da femmina se ti piacciano i colori e il modello”.
“Bene allora le prendo”.
Ecco quello che è successo qualche settimana fa con mio figlio.
Aveva trovato finalmente delle scarpe che gli piacevano su uno store on line, ma era rimasto disorientato quando aveva visto la categoria donna. Per fortuna però non si è fatto influenzare più di tanto e così alla fine, spinto dal desiderio di avere proprio quelle, le ha prese senza problemi.
Lo stesso capita anche con alcuni pigiami. Non preferendo quelli con i tre bottoncini spesso compriamo per lui modelli femminili che hanno un girocollo abbondante e sono senza quei fastidiosi bottoni. Lui è contentissimo e non gliene frega nulla della foto della modella sulla confezione.
Sono contento che i miei figli riescano ad andare al di là delle etichette o di certi stereotipi. Evidentemente siamo riusciti, sin da quando sono piccoli, a fargli capire che ci sono delle cose o dei giochi o dei colori che non identificano.
In casa nostra ad esempio i miei figli hanno sempre giocato con la cucina. Gliene comprammo una con tanto di forno, pentole e fuochi per preparare pranzi deliziosi. Qualche amico i primi tempi storceva il naso perché un maschietto davanti ai fornelli con tanto di grembiule non gli sembrava un gioco adatto. Beh noi abbiamo fatto anche di più, per qualche tempo avevamo anche un piccolo carrello della spesa con tanto di lista delle cose da comprare (anche perché sempre maschi sono e quindi, conoscendo la specie, a memoria non avrebbero ricordato nulla).
E’ per questo che sono stato contento di parlarne durante la mia intervista a Idealo che mi chiedeva cosa ne pensassi dei prodotti unisex per bambini e ragazzi.
In effetti ci sono dei giochi, degli abiti, dei prodotti che sono unisex. Allora perché doverli rinchiudere necessariamente in un genere?
E poi a conti fatti ci sono il doppio dei potenziali clienti o no?
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]]>L'articolo Ep.2 – Resistere mica è sopportare proviene da Mo te Lo Spiego a Papà.
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]]>E’ il tempo di pensare alla festa del papà? Io dico di sì perché oggi abbiamo un po’ di tempo in più per guardarci in faccia, per scoprire chi stiamo diventando, per conoscerci meglio. Proprio ora c’è un papà che inventa un gioco, che fa divertire la sua famiglia ed è contento di riuscirci bene. Non l’avrebbe mai detto. Proprio ora c’è un papà che lavora in ospedale ininterrottamente sacrificando il suo riposo e la sua famiglia che, orgogliosa del suo impegno, lo sostiene. Proprio ora c’è un papà senza lavoro che non si è mai trovato in una situazione del genere e non riesce a dormire, né a sognare. Proprio ora c’è un papà davanti ai fornelli che sta cucinando. Non sapeva di avere talento con farina e uova, ma non immaginava che in famiglia ci fossero gusti così diversi. Proprio ora c’è un papà che muore, sì proprio ora. Non è mai il momento giusto per morire, non è mai abbastanza il tempo che abbiamo trascorso con le persone che amiamo. Proprio ora c’è un papà che scopre i social, che guarda le dirette Instagram, che ride ai video su Tik Tok e che condivide pensieri su Facebook. Sta pensando che non è mai troppo tardi per scoprire il meglio di ogni cosa. Proprio ora c’è un papà smart working che non sapeva di avere dei figli che mangiano a tutte le ore e che non riescono a stare in silenzio. E che a casa c’è anche un frigo che ti tenta continuamente. Proprio ora c’è un papà che sta per diventare padre per la prima volta e che oltre a farsela addosso perché non sa neanche come si tiene in braccio un neonato si sente pure un po’ in colpa per il periodo poco propizio. Proprio ora c’è un papà che ha paura, ma che prova a non mostrarla e che spera di ricevere per la sua festa una poesia, un disegno, un pensiero o altro gesto che la possa scacciare. P.S: Non vi preoccupate verrà anche la festa della mamma e diremo cose lodevoli, ma ore è tempo dei papà.
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]]>Io dico di sì perché oggi abbiamo un po’ di tempo in più per guardarci in faccia, per scoprire chi stiamo diventando, per conoscerci meglio.
Proprio ora c’è un papà che inventa un gioco, che fa divertire la sua famiglia ed è contento di riuscirci bene. Non l’avrebbe mai detto.
Proprio ora c’è un papà che lavora in ospedale ininterrottamente sacrificando il suo riposo e la sua famiglia che, orgogliosa del suo impegno, lo sostiene.
Proprio ora c’è un papà senza lavoro che non si è mai trovato in una situazione del genere e non riesce a dormire, né a sognare.
Proprio ora c’è un papà davanti ai fornelli che sta cucinando. Non sapeva di avere talento con farina e uova, ma non immaginava che in famiglia ci fossero gusti così diversi.
Proprio ora c’è un papà che muore, sì proprio ora. Non è mai il momento giusto per morire, non è mai abbastanza il tempo che abbiamo trascorso con le persone che amiamo.
Proprio ora c’è un papà che scopre i social, che guarda le dirette Instagram, che ride ai video su Tik Tok e che condivide pensieri su Facebook. Sta pensando che non è mai troppo tardi per scoprire il meglio di ogni cosa.
Proprio ora c’è un papà smart working che non sapeva di avere dei figli che mangiano a tutte le ore e che non riescono a stare in silenzio. E che a casa c’è anche un frigo che ti tenta continuamente.
Proprio ora c’è un papà che sta per diventare padre per la prima volta e che oltre a farsela addosso perché non sa neanche come si tiene in braccio un neonato si sente pure un po’ in colpa per il periodo poco propizio.
Proprio ora c’è un papà che ha paura, ma che prova a non mostrarla e che spera di ricevere per la sua festa una poesia, un disegno, un pensiero o altro gesto che la possa scacciare.
P.S: Non vi preoccupate verrà anche la festa della mamma e diremo cose lodevoli, ma ore è tempo dei papà.
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