Bambini di strada

Foto di Andrea Baldo

Foto di Andrea Baldo

A casa di Emilio si entrava spostando la porta di peso, poggiandola sul muro di lato.

C’era sempre una puzza acida all’ingresso e, in qualsiasi stanza andassi, la suola delle scarpe si attaccava al pavimento mentre il passo successivo produceva un suono simile a uno strappo. In genere lo trovavo nascosto sotto il letto perché non voleva lavarsi prima di uscire con me. Era una regola su cui non transigevo visti i mal di testa che mi procurava in auto, quando pioveva ed eravamo costretti a tenere i finestrini chiusi. Ma poi come potevo dargli torto: il bagno sembrava quello del film Trainspotting.

Emilio aveva 16 anni e un leggero ritardo cognitivo. Viveva con la sua famiglia in provincia di Napoli, in un luogo isolato: su richiesta dei servizi sociali andavo a casa sua tre volte a settimana per occuparmi di lui, del fratello Antonio di 12 anni, di Teresa di nove.

La prima sera, tornando a casa, in macchina ho pianto per tutto il tempo. Avevo bisogno di scaricare le tensioni e le emozioni accumulate. Lavoravo già da molto come educatore in contesti multiproblematici, ma i pezzi di vita di alcune persone ti segnano più di altri, specie se il tuo compito è quello di cercare soluzioni, offrire alternative, mostrare speranze di vita migliore. Nei momenti di lucidità – era affetta da bipolarismo – la mamma dei ragazzi mi chiedeva di non abbandonarli: aveva paura di quello che lei stessa avrebbe potuto fargli e non si fidava del marito, più anziano di 30 anni, semiparalizzato, incontinente e alcolista.

Assieme ai miei colleghi, professionisti come me, ho lavorato con quella famiglia per nove mesi. Ma quando tutto sembrava pronto, quando tutti avevano acconsentito ai percorsi da me proposti, ogni volta il progetto si interrompeva «per mancanza di fondi», perché non era stata «preventivata la continuità». Come quella di Emilio, nello stesso territorio altre famiglie venivano prima illuse, poi lasciate a loro stesse. Non so quanto quello che ho seminato sia riuscito a dare frutto. Ma oggi, che sono passati dieci anni, penso ancora all’espressione triste della piccola Teresa.

Non dimentico neanche Marco, e la sua voglia di fidarsi nuovamente di un adulto, a dispetto di tutto. Quando l’ho incontrato aveva 10 anni, occhioni azzurri, un caschetto biondo e un fisico da Bruce Lee. Al pomeriggio aiutavo a fare i compiti lui e altri due ragazzi di una casa famiglia: lui parlava poco, ma i suoi gesti erano eloquenti. Un giorno abbassandosi i pantaloni aveva cominciato a masturbarsi: a quel punto ho capito che mi stava chiedendo di essere fermato, di dimostrargli che un adulto non abusa di un bambino, ma lo protegge e gli indica cosa è giusto e cosa è sbagliato.

Il lavoro di equipe con i miei colleghi e quello integrato con i servizi territoriali dava i suoi frutti, finché a un certo punto, dopo diversi anni di arretrati, il Comune di Napoli – che pagava la retta giornaliera di Marco – ci ha chiamato chiedendo se volevamo essere saldati subito, ma al 70% oppure, qualora avessimo voluto quel che ci spettava, a data da destinarsi.

Non è facile interagire con ragazzo di quasi 100 kg che a 13 anni vive come se ne avesse 20 a casa dei nonni con mamma, sorellina e zia. Filippo era un leone rabbioso che spesso si scagliava contro la madre con la stessa violenza che su di lei era abituato a usare il padre. In classe non riusciva a stare seduto per più di 20 minuti, un attaccabrighe che aveva già raccolto una denuncia e viveva sotto lo sguardo vigile del tribunale per i minorenni. A volte lo sorprendevo a fumare spinelli, più spesso a ingozzarsi di wurstel e coca-cola.

Con Filippo ho lavorato sette mesi per costruire una relazione significativa e per accrescere la sua autostima. Ho cercato di spiegargli che le regole vanno rispettate. E pure gli adulti, in genere. Ma chi come lui ha bisogno di aiuto ti mette alla prova, fino al limite dell’esasperazione, innalzando ogni volta un muro che blocca ogni comunicazione. Nel tempo ho imparato che questo muro non per forza è una barriera o un ostacolo: ai ragazzi serve sapere quant’è solido, sanno che se si rompe subito allora non c’è da fidarsi.

Con Filippo il lavoro di rete assieme a scuola, parrocchia, servizi sociali e una palestra stavano dando buoni frutti. Certo: lui continuava ad avere un atteggiamento bulimico col cibo e con le emozioni, i gesti e le parole, e per questo avevamo organizzato degli incontri da una psicologa del Centro famiglia del Comune. Era spaventato perché sempre di una «dottoressa dei pazzi» si trattava, ma tutto quello che abbiamo fatto insieme giocando, studiando e parlando lo spingeva ad andarci. La domanda che non riusciva a formulare era: se odiava suo padre per quello che aveva fatto a sua madre e perché si drogava, per quale motivo lui si comportava allo stesso modo?

Non so se qualcuno gli abbia risposto: il Comune con cui lavoravo ha interrotto il progetto per mancanza di fondi. Quello che so per certo è che molti ragazzi e molte famiglie vengono lasciate a metà di un percorso col rischio di aver sprecato tempo e denaro (pubblico). E i soldi che oggi non si investono per questi progetti domani saranno il doppio, quando questi ragazzi, mai emersi dall’abbandono e senza opportunità, finiranno con l’essere a loro volta genitori culturalmente poveri, tossici da curare, violenti da denunciare, delinquenti da rinchiudere.

Non è vero che chi è nato tondo non può morire quadrato. Se condiviso, il cambiamento è possibile. E noi che abbiamo più strumenti abbiamo il diritto e il dovere di contribuire, di offrire una possibilità a chi, per un motivo o per l’altro, resta indietro. Non vorremmo forse essere aiutati, se un domani capitasse anche a noi?

Per fortuna e nonostante le difficoltà e le carenze croniche di fondi, in questi anni sono riuscito a vedere Giuliano conseguire un diploma, Salvatore tornare a fare il papà a tempo pieno dopo anni di comunità di recupero e Rossella aprirsi un centro estetico tutto suo, ma anche Rosario allontanarsi dalle cattive compagnie e Fabrizio fare un corso di operatore dell’infanzia per il desiderio di lavorare con i bambini del suo quartiere. Davvero una fortuna, anzi no: una meraviglia.

Box: Una buona notizia

Dal 2004 nella periferia est di Napoli la cooperativa sociale Terra e libertà ha avviato il centro socio educativo “Il piccolo principe” che, senza nessun finanziamento pubblico, offre ai ragazzi dai sei ai 14 anni, dal lunedì al venerdì, un luogo dove studiare, giocare, vedere un film, ascoltare una storia, costruire, ballare, recitare e tanto altro ancora.

«Attraverso azioni di fund raising , il cinque per mille e di solidarietà di privati riusciamo a garantire una continuità che gli enti pubblici non esprimono, seguendo circa 50 bambini e le loro famiglie», spiega Luigi Tarallo, presidente della onlus Terra e libertà. Nel 2006 Il piccolo principe ha ricevuto una medaglia di riconoscimento dal Presidente della Repubblica Italiana «per l’impegno costante sul territorio e per la capacità di essere un presidio di legalità». Per sostenere questo progetto www.terraetliberta.it